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DIVANI GIALLI E POLTRONE BORDEAUX | PT. 2

Per quanto riguarda me e Francesco, eravamo una coppia affermata, stavamo andando a vivere insieme, allora non sapevo che sarei finita col sposarlo, avere un cane e non confessargli mai quella storia di Martin. Lui come tutti gli altri era sicuro che fosse già successo prima del suo arrivo, anche se la nostra intimità non l’aveva mai preoccupato, forse ingelosito a volte, come si è gelosi del migliore amico del tuo migliore amico. Non lo biasimavo.

Credo che Martin ci stesse pensando da giorni, all’idea di salutarci in quel modo. Come se essendo qualcosa di plausibilmente già accaduto, fosse quasi doveroso che accadesse prima della fine. Questo è quello che credo che pensasse, dato che è quello che pensai io. Ero consapevole che negli ultimi giorni mi aveva osservata, come faceva raramente. Guardando i  capezzoli che spuntavano da sotto la t-shirt quando, senza reggiseno, mi sedevo accanto a lui per guardare la televisione.

Come risultato di tutti quei pensieri, giustificazioni e inesistenti obiezioni, quando finimmo di ridere scossi la testa e lo continuai a guardare negli occhi. Mi alzai dal bracciolo continuando a guardarlo e mi avvicinai. Lui allontanò le braccia dal loro piano d’appoggio, lasciandomi così le sue gambe libere. Io mi ci sedetti sopra, aprendo le mie e facendo accostare le mie ginocchia ai suoi fianchi, facendo in modo di farlo scivolare ancora più in fondo al divano, fino al punto in cui fossimo perfettamente incastrati.

Martin fece scorrere le mani sulle mie cosce, fino ad arrivare alla cucitura dei pantaloncini color verde fosforescente, che portavo da anni. Lì aspetto per qualche istante, chiedendosi cosa sarebbe successo ad andare più in là, ce lo sussurrammo guardandoci.

Aveva le mani grandi, un particolare sul quale avevo già fantasticato parecchie volte. Ora mi stava afferrando le natiche, quasi riuscendo a far entrare ogni parte della mia pelle fra le sue falangi. Ancora, anche se con la sua erezione visibile e pressante sotto di me, e la mia voglia umida che attraversava il primo strato di tessuto, non ci sembrava fosse arrivato il momento giusto per baciarci. Non sapendo dove mettere le mani, appoggiai le braccia sulle sue spalle, facendole sparire dietro la nuca. Iniziai a muovermi sopra di lui, andando avanti e indietro. Avevo nel petto quella sensazione di vuoto che l’eccitazione produce, quando sembra di essere sulle montagne russe. Decisi di avvicinare il mio viso, e mi eccitai annusando il sapore della sua bocca vicino alla mia. Mi leccai le labbra in maniera involontaria, e poi con la lingua mi avvicinai alle sue. Erano morbide, una morbidezza che rispecchiava il loro colore. Martin non riuscì ad aspettare e spostando le sue mani sulla mia schiena, per avere la presa più salda, si fece avanti col corpo e mi baciò. Mi infilò la lingua in bocca, un bacio simile a quelli che schioccano alle feste, dopo ore di sguardi corrisposti. Ci mordemmo le labbra, ci arrotolammo le lingue, i nostri denti si scontrarono qualche volta per la foga, e io continuavo ad eccitarmi mentre sentivo che lui faceva lo stesso. Era così duro lì giù, che avrei potuto masturbarmi e venire senza nessun aiuto esterno. Risi in silenzio pensandoci. In quell’istante mi spostò la maglietta senza maniche, facendo spuntare il mio piccolo seno destro dall’angolo. Staccandosi dal mio viso si attaccò al capezzolo, mentre afferrava il seno, che risultava quasi invisibile nella sua mano.

Mi tolsi la maglietta e gli lasciai spazio per poter leccarmi tutta la pelle lasciata scoperta. Passò da un seno all’altro, mentre con le mani mi cingeva la vita e io lo spingevo ad aderire con ancora più foga ai miei capezzoli. Gli tolsi la sua di maglietta, e con la scusa di alzarmi per poi levarmi i pantaloncini, mi accostai al suo corpo sudato e caldo. Aderii perfettamente per qualche frazione di secondo e lui ne approfittò per annusarmi l’incavo del collo salato.

Dopo essermi alzata e aver fatto cadere sul parquet rovinato i pantaloncini e gli slip bianchi che indossavo, aspettai che lui facesse lo stesso. Martin rimase stranito sul divano per qualche istante, osservandomi nuda davanti a lui. Gli sorrisi, e con quel gesto così consueto lo feci riatterrare sui cuscini gialli. Si abbassò i pantaloncini e li lanciò sul televisore mai acceso, davanti a lui. Fu la prima volta che vidi così chiaramente il suo pene in erezione davanti a me. Era bello come lo immaginavo, aveva le vene, di cui spesso si sente parlare nei discorsi sull’estetica del cazzo, che gonfie lo delineavano con il loro colore violaceo. Mi leccai la mano e gliela passai tutto intorno. Lui sospirò tirandosi su sul divano, alzando contemporaneamente le spalle.

Lo infilai in bocca solo per un attimo. Okay, lo sentì dire, e quando ritornai su lo vidi osservare il tetto, paonazzo. Avevamo un paio di preservativi di emergenza, in una scatolina kitsch orientale vicino alla cucina. Corsi a prenderne uno, e dopo averglielo infilato tornai a sedermi sopra di lui. Il suo pene entrò immediatamente dentro di me, e appoggiando nuovamente le mani sui miei fianchi iniziammo a fare sesso. Lui era forte e rispettando il mio ritmo mi spingeva verso di sé. Io cercavo di non aumentare la velocità, come ero solita fare, per potermi godere le sue tensioni.

Continuammo con calma, lui mi afferrò i seni mentre mi riagganciavo alle sue labbra passandogli la lingua fra i denti. Il mio clitoride sul suo basso ventre era turgido e pronto. Venni prima di lui, senza dar segni che lo prennunciasserò. Furono i miei spasmi interni a dargli il via libera, mi tirò con forza verso di sé e sospirando mi seguì subito dopo.

Rimanemmo per qualche minuto seduti a sorridere e ansimare ad intervalli alternati. I traslocatori suonarono al citofono, e io mi tirai su lasciandolo risolvere impacciato la faccenda del preservativo.

Mi rivestii, tirai su i capelli e risposi al citofono invitando i due energumeni a salire al settimo piano. Quello fu il giorno in cui salutai la mia vecchia casa, io e il mio vecchio migliore amico Martin facemmo sesso, e non ci vedemmo più.

arts by Sophie Schultz

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Divani gialli e poltrone bordeaux | pt. 1

I capelli di Martin erano di un castano chiaro simile al miele, aveva gli occhi verdi ed era più alto della media degli uomini che conoscevo, nettamente più alto.

Quel giorno indossava una maglietta con un fumetto disegnato sopra, uno di quelli che recita una qualche battuta di pessimo gusto con riferimenti allusivi a rapporti sessuali animaleschi. Era seduto spalle curve e gomiti appoggiati sulle cosce, quando finiva di allenarsi spesso rimaneva in quella posizione, sorseggiando la bottiglietta d’acqua lasciata fuori dal frigorifero prima di raggiungere la baia. Avevamo provato qualche volta a correre insieme, però non riuscivo a tenere il suo ritmo, non sono mai stata una tipa sportiva.

L’abbronzatura non uniforme, acquisita durante quelle prime settimane di giugno, era ancora più evidente quando tirava su le maniche corte attorno alla spalla. Aveva le braccia ambrate fino al segno della manica, da quel punto in poi il suo corpo era rimasto di un bianco cartaceo che si riprendeva a scurirsi intorno all’attaccatura dei capelli.

Quella sera non avrei dovuto essere a casa, il furgone del trasloco era in ritardo.

Ti hanno scritto? Mi chiese. Io ero appoggiata al bracciolo della poltrona amaranto posta davanti al divano.

Quella sala era simile ad una giovane donna arricchita, piena di gingilli di nulla importanza. Il divano e la poltrona erano gli unici elementi, su quelle guance troppo truccate da quadri di dubbio gusto, capaci di rendergli giustizia. Erano stati portati su durante il novembre del 2016, erano stati abbandonati vicino ai cassonetti della spazzatura davanti al bangladino all’angolo.

Ho provato a chiamarli ma nulla, riprovo fra una decina di minuti.

Francesco quando rientrerà? Disse passandosi una mano fra i capelli per poi asciugarsi le goccioline d’acqua che erano fuoriuscite dal tracannamento disordinato.

Ha l’aereo domani mattina presto, andrò a prenderlo per l’ora di pranzo.

Bene.

Francesco era allora semplicemente il mio fidanzato, nonché futuro coinquilino. Quella sera mi sarei dovuta trasferire dall’altra parte della città, in un monolocale di 54 mq, abbandonando il divano giallo, la poltrona bordeaux e Martin.

Martin faceva prendere aria alle cosce sudate, spostando su e giù i pantaloncini comprati alla decathlon a sette euro. Qualche mese prima avevamo festeggiato il nostro quarto anno di convivenza, ci eravamo conosciuti all’università, frequentavamo alcuni corsi insieme, e avevamo stretto quel rapporto amicale sin dal primo incontro.

Sarà strano non ritrovarti a far colazione la mattina.

Sarà strano non dover lavare i piatti che lasci nel lavandino.

Dondolavo le ginocchia nervosamente, gli ero molto legata, la mia quotidianità e le mie esperienze inusuali gli erano in qualche modo vincolate. Quell’esatta scena l’avremmo vissuta sì e no un miliardo di volte, io con shorts troppo corti e magliette stropicciate sulla poltrona, e lui sul divano a boccheggiare per il caldo.

Mi hanno scritto che ritardano di un’ora, dissi, tradendo così una voce a metà fra un sospiro.

Al contrario di quello che pensavano tutti, da compagni di corso a familiari, fino a quel momento io e Martin non avevamo mai fatto sesso. Eravamo rimasti spesso accovacciati l’uno sull’altro, in momenti più o meno romantici, più o meno sessualmente eccitanti, ma non avevamo voluto mai provarci davvero. Fino a quel momento non aveva mai avuto abbastanza senso da farci pensare che sarebbe andato bene anche se.

I miei stinchi iniziarono a colpire le sue ginocchia, e scoppiammo a ridere entrambi. Da quando stavo con Francesco il nostro rapporto era un po’ cambiato, stavamo sempre di più diventando due semplici amici, regredendo ad un gradino della scala relazionale più banale e semplice, un gradino in cui far sesso non avrebbe sconvolto i piani di nessuno.

Solo due anni prima ci eravamo andati pericolosamente vicino.

Era la festa di capodanno, e noi avevamo iniziato a bere durante i preparativi, accartocciando carta velina per farla sembrare neve, erano arrivate le sette di sera e nessuno dei due aveva la forza di accogliere gli ospiti. Quando i primi arrivarono, lasciammo tutto in mano a fedeli compagni e ci rifugiammo in camera per raccogliere un po’ di senno. Scoppiammo a ridere appena varcata la soglia e ci ritrovammo a nasconderci, da persone che non sarebbero mai venute a cercarci, tra l’armadio e la parete. Alternavamo risate a tentativi di silenziare le stesse, ed eravamo tanto vicini da annusare i nostri fiati. Io avevo una gonna lunga di velluto verde, che avevo comprato in una sconosciuta fiera gitana, e lui, preso dall’analisi del tessuto, iniziò ad accarezzarmi la coscia. Pensai se fosse il caso di fermarci, ma era così morbido il velluto che semplicemente inclinai il collo verso destra e acquietai le risate. La gonna aveva uno spacco profondissimo, questo si trovava sul lato che Marvin stava esaminando e ad un tratto le sue dita ci cadettero dentro. Con scarsi indugi vi entrò,  la temperatura della mano era così simile alla mia che sentii solo la morbidezza. Questa risalì facendosi strada fra il tessuto e arrivò agli slip senza ostacoli. Io ero rimasta col collo inclinato, il fiato pesante e per un istante, solo uno, spostai la gamba per rendergli tutto più semplice. Lui accostò da un lato le mutande e con la mano mi afferrò. Sospirai e in quel momento di scarsa lucidità ci guardammo, costringendo quest’ultima a riproporsi.

La temperatura fra le cosce, era molto più alta. Ero calda, bagnata e sarebbe bastato pochissimo per far entrare le sue dita dentro di me. Si raccontava fosse bravo con le dita. Io le avevo già immaginate varie volte sfiorarmi, erano lunghe e grandi, un po’ come lui. Sarebbe bastato pochissimo per permettergli di giocare col mio clitoride, che era già duro. Sarebbe bastato pochissimo per girarmi e appoggiarmi completamente contro la parete per permettergli di entrare ovunque, da quella angolazione che mi piaceva tanto. Sarebbe bastato pochissimo eppure non successe.

Quella stessa sera a festa finita, passandoci l’ultima bottiglia di passito, giurammo che avremmo fatto sesso solo quando non avremmo rischiato nulla.

art by Pang Xunqin, The Girl on the Couch, 1930